Erano le suore «cappellone» a servizio di orfani e senzatetto

LA STORIA. Dopo un secolo, le Figlie della Carità lasciano Verona. Erano state chiamate in città dopo la Grande Guerra
Erano le suore «cappellone»
a servizio di orfani e senzatetto
Rimaste solo in tre per mancanza di nuove vocazioni, sono state smistate in altre città
Anni Sessanta: le suore «capelone» gestivano a Castel San Pietro l’asilo dell’Istituto Calderara
Sono andate via in silenzio, così come in silenzio avevano lavorato per gli ultimi della città. Dopo quasi un secolo di permanenza a Verona, le Figlie della Carità di San Vincenzo de’ Paoli – chiamate «suore cappellone» per il copricapo a due grandi tese indossato fino agli anni Sessanta – si sono chiuse alle spalle la porta della sede storica in lungadige Matteotti. Non le si vedrà più nemmeno alla Casa della carità di via Prato Santo, attiva dal 1948: punta di diamante del volontariato vincenziano, con la mensa per 80 persone (1952) e il guardaroba per i poveri e l’adiacente asilo (1930).Esaurite, estinte per mancanza di nuove vocazioni e, le ultime, smistate in istituti di altre città. Ma le Figlie della Carità lasciano a Verona un’eredità spirituale che si traduce nella buona volontà di 150 esponenti laiche dei Gruppi di volontariato vincenziano (ex Dame della carità), cui d’ora in avanti sarà affidata la piena gestione delle attività filantropiche.Negli ultimi tempi le religiose erano rimaste solo in tre: suor Graziella Cesaretto, 65 anni, anima della Casa della Speranza di Veronetta per donne svantaggiate e vittime di soprusi; la settantenne suor Giovanna Evasi, che insegnava catechismo nella parrocchia di San Giorgio in Braida; e la superiora suor Graziella Pellegrinelli, 81 anni, che aiutava alla mensa di via Prato Santo. Quest’ultima oggi conserva l’impegno in una mensa dei poveri, ma a Como; suor Giovanna è stata spostata a Firenze, e l’altra suor Graziella, la Cesaretto, a Rovigo in supporto del locale Gruppo vincenziano.«Ora che le suore se ne sono andate, e dopo il ritiro anche dei padri di Quinzano, noi volontarie siamo rimaste l’unico ramo veronese della famiglia vincenziana», spiegano le Dame della carità, che tra l’altro celebrano i 400 anni dell’associazione, fondata da San Vincenzo de’ Paoli nel 1617. «Siamo dispiaciute, è una grande perdita. Ma i poveri sono tanti, dobbiamo andare avanti».Delle «suore cappellone» restano i ricordi e la casa di lungadige Matteotti: la occupa ancora in parte la Caritas, destinata però a traslocare in via Trezza. Poi sarà la Curia, proprietaria dell’immobile, a decidere se riutilizzarla o metterla in vendita.Le Figlie della Carità erano state chiamate a Verona nel 1919. Appena finito il primo conflitto mondiale, in città abbondavano gli orfani di guerra. Don Emilio Fabbro (1880-1956), «prete di strada» di cui si è persa la memoria, aveva fondato un primo nucleo di orfanotrofio femminile sul terreno di sua proprietà in lungadige Matteotti. L’Adige era allora privo di muraglioni, e non di rado l’acqua entrava nella rudimentale dimora.Fu la tenacia di un’altra figura mitica e ormai dimenticata, suor Maria Chiabodo (1872-1948), direttrice dell’orfanotrofio nei primi 25 anni, a far decollare l’opera assistenziale, assistita da un manipolo di consacrate dai nomi suggestivi almeno quanto le loro candide cornette di lino inamidato: suor Leontina, suor Elvira, suor Inviolata, suor Raffaella, suor Amalasia, suor Amalia.Testimonianza anonima di un’ex ospite nelle «Rimarche», le memorie delle Figlie della Carità, riportate a stralci sul Piccolo sito vincenziano: «Indisciplinate perché soffrivamo della penuria generale, desideravamo la chiusura dell’istituto per essere libere. Ma fin dai primi giorni, lo sguardo buono di suor Maria calmò le nostre ribellioni. Ci comprendeva come una mamma. Pochi giorni dopo il suo arrivo, ecco la festa di Santa Lucia. Pensavamo che sarebbe passata inosservata come al solito. Che sorpresa, invece, scoprire un bel pacchetto sotto il cuscino! Dopo questo gesto così delicato, non passò festa senza che trovassimo un regalino».Le ragazze lasciavano l’orfanotrofio a 21 anni, a studi conclusi, avviate a un lavoro, con il corredo completo e una somma di denaro che le aiutasse all’inizio della loro nuova vita. Ma i senza famiglia erano così numerosi che presto si rese necessario allestire una dependance, stavolta maschile, all’ex caserma austriaca di Castel San Pietro: l’istituto «Fanciulli abbandonati» funzionò dal 1928 al 1978.Valdostana, figlia di generale, la superiora Chiabodo sapeva riuscire nei suoi intenti, accompagnando la fede incrollabile alla sottile arguzia. Un aneddoto. I soldi per gli orfani non bastavano mai, i conti dell’istituto erano in profondo rosso. Sempre le «Rimarche» riportano che, un giorno, un burbero esattore delle imposte inviato da Roma si presentò dalle monache a batter cassa. Senza cerimonie, aprì sul tavolo le cartelle. La somma da sborsare era molto alta, la cassa dell’orfanotrofio vuota. La Chiabodo non si scompose. Disse solo: «La faccio parlare col padrone di casa». «È meglio», rispose duro l’esattore. Lei guida il funzionario lungo un corridoio, apre una porta, lo fa entrare, richiude. Lui, spiazzato, si trova solo davanti al tabernacolo. Cosa accadde? L’esattore uscì dalla cappella con espressione mutata. Radunò le cartelle, salutò sull’attenti, e non si fece più rivedere. Dopo qualche tempo, l’Ufficio Imposte volle informarsi su cosa era stato detto al suo rappresentante, perché, rientrato in ufficio, aveva stracciato tutto l’incartamento.Negli anni Sessanta le «suore cappellone» persero il cappello: papa Paolo VI le invitò a semplificare e ammodernare la divisa, ancora ispirata all’antico costume delle contadine di Piccardia, dove la congregazione era nata nel 1633. E fu proprio allora, con il venir meno dell’attività all’orfanotrofio, che a Verona iniziò il declino numerico delle Figlie della Carità.Ma, allo stesso tempo, le laiche Dame della carità crescevano. Quelle che oggi raccolgono il testimone delle suore prestano servizio nei Gruppi vincenziani da quarant’anni, ma ce ne sono anche di giovani: «Le suore ci mancheranno. A noi, ai bambini del catechismo, ai barboni, agli anziani poveri a cui facevano iniezioni e compagnia. A tutti gli ultimi di Verona».
Lorenza Costantino